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Percorrere l'evoluzione dei modelli atomici è un ottimo modo di rendersi conto del significato di modello, cioè di una costruzione mentale in grado di interpretare i fenomeni fisici e, se possibile, di prevederne di nuovi. Inoltre questo settore di ricerca fu in mutuo e continuo scambio con lo sviluppo della teoria quantistica. La necessità di prevedere l'esistenza degli atomi si era presentata all'inizio del secolo XIX in chimica, ed era subito stata accettata in quell'ambito scientifico. I fisici, al contrario, furono molto restii ad ammettere la loro esistenza, opponendo una obiezione di tipo "galileiano": poiché gli atomi non sono direttamente osservabili, essi non possono essere entità fisiche, dato che in fisica una grandezza, per esistere, deve essere misurabile.
Alla fine del secolo XIX, comunque, gli sviluppi della termodinamica e nuove scoperte, come l'esistenza degli elettroni (esperimento di J. J. Thomson, 1897) convinsero della necessità di costruire validi modelli atomici. Qualunque modello atomico doveva rispettare alcune evidenze sperimentali:
E' chiaro che possono esistere molti modelli che soddisfano queste condizioni; nella scienza vale un principio molto generale, quello dell'economicità: il modello migliore è quello più semplice, quello cioè che rispetta tutti i parametri con il minor numero di ipotesi aggiuntive. Un modello è però una struttura dinamica in continua evoluzione: occorre testarlo con esperimenti mirati. Se il modello è coerente con i dati sperimentali ottenuti esso si rafforza, altrimenti occorre abbandonarlo e sostituirlo con uno nuovo che spieghi tutti i risultati sperimentali del vecchio, più quelli che lo hanno messo in crisi. Il primo modello atomico fu proposto da J. J. Thomson nel 1903 (modello a panettone); esso prevedeva che l'atomo fosse una sfera costituita da materia carica positivamente, con gli elettroni conficcati come l'uvetta in una torta, in modo da assicurare la neutralità del sistema.
Il modello di Thomson entrò in crisi tra il 1909 ed il 1911 in seguito ad una serie di esperimenti condotti nell'Università di Manchester dal neozelandese Ernest Rutherford con la collaborazione dei giovani fisici tedeschi Geiger e Marsden. L'idea base dell'esperimento di Rutherford è semplice: per ottenere informazioni sull'atomo lo si bombarda con proiettili delle sue dimensioni e si analizza la deflessione subita dai proiettili dopo l'urto. Ragionando per analogia è come se volessimo ottenere informazioni su un oggetto sconosciuto posto all'interno di una scatola chiusa sparando contro di essa con una mitragliatrice; se ad esempio tutti i proiettili attraversano la scatola quasi indisturbati si può pensare che il contenuto sia poco resistente e tenero, se invece qualche proiettile viene fortemente deviato o addirittura rimbalza indietro si può ipotizzare che all'interno vi siano oggetti molto tenaci e duri.
Nell'esperimento di Rutherford i proiettili erano costituiti da particelle α (nuclei d'elio) emesse da una sorgente radioattiva (polonio), mentre il bersaglio era una sottilissima lamina d'oro, con uno spessore pari ad uno strato di qualche migliaio di atomi appena. Le attese degli sperimentatori, sulla base del modello di Thomson, erano che i proiettili dovessero attraversare lo strato di atomi come se fosse stata carta o burro, tenendo conto che le particelle α costituivano proiettili massicci che arrivavano sulla lamina d'oro ad alta velocità.
Secondo il modello di Thomson, l'atomo era una sferetta di raggio r di circa 10-10 m con una carica positiva q distribuita in modo uniforme. Questa sferetta avrebbe dovuto creare un campo radiale nello spazio di valore massimo E = k q / r2, troppo debole per deviare sensibilmente le particelle α.
I risultati sperimentali furono sorprendenti: si osservò infatti che, se la maggior parte delle particelle α attraversava la lamina d'oro senza subire una apprezzabile deviazione, come previsto, un certo numero di proiettili, però, veniva deflesso fortemente e qualcuno, con una frequenza di 1 particella su 6 milioni, veniva addirittura riflesso all'indietro. Rutherford disse "era come se vi fosse capitato di sparare un proiettile da 15 pollici su un pezzo di carta velina e questo fosse tornato indietro a colpirvi".
Era come se la carica positiva nell'atomo fosse in grado di esercitare sulle particelle α forze repulsive molto più intense di quelle previste dal modello a panettone. Sulla base delle frequenze statistiche delle particelle rimbalzate indietro venne valutata la sezione d'urto e quindi il raggio della sezione occupata dalla carica positiva. Il raggio risultò molto più piccolo dell'atomo: r = 1,5 10-14 m
Se la carica positiva occupa una zona molto minore delle dimensioni atomiche, allora il campo elettrico E massimo è decine di milioni di volte più intenso di quello previsto dal modello di Thomson. Questo spiega l'enorme forza repulsiva che fa rimbalzare indietro le particella α che si trovino quasi in rotta di collisione con un nucleo d'oro.
Sulla base dei risultati sperimentali, Rutherford nel 1911 propose il suo modello atomico, detto anche atomo planetario per la sua struttura analoga a quella del sistema solare. Nel modello di Rutherford, la carica positiva è concentrata in un volume piccolissimo al centro dell'atomo, il nucleo, il cui raggio varia da 10-15 a 10-14 m passando dall'idrogeno agli elementi pesanti, mentre gli elettroni, in numero tale da bilanciare la carica positiva del nucleo, ruotano su orbite di raggio compreso tra 10-10 e 3 10-10 m.
Questo modello, semplice ed elegante, spiegava bene i risultati sperimentali, ma, in base alla fisica classica, aveva il difetto di essere instabile. Infatti le cariche elettriche non possono comportarsi stabilmente come satelliti intorno al nucleo perché la teoria classica di Maxwell prevede che una carica che oscilla emetta onde elettromagnetiche della stessa frequenza di rotazione. Gli elettroni avrebbero dovuto emettere continuamente radiazione elettromagnetica e quindi perdere energia a ritmo costante, avvicinandosi sempre di più al nucleo, fino a cadervi e questo doveva avvenire in un tempo molto breve, in contrasto con l'evidente stabilità della materia.
Si era ad un punto di crisi: o il modello di Rutherford non andava bene e allora non si potevano spiegare in nessun modo i risultati sperimentali sulla deflessione della particelle α, o la fisica classica non era adeguata alla descrizione dell'atomo. La soluzione del dilemma avvenne due anni dopo, nel 1913, per merito del fisico danese Niels Bohr che adattò al modello di Rutherford i principi della neonata fisica quantistica.
Prima di parlare del modello atomico di Bohr è però necessario illustrare alcuni importanti fatti sperimentali che ebbero interpretazione teorica proprio grazie a questo nuovo modello. Uno di questi era lo spettro di luce emesso dai gas incandescenti.
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Copyleft Ludovica Battista